Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
L'evento è realizzato in collaborazione con la libreria Sognalibro e il Gruppo Archeologico Ferrarese APS, col contributo della Direzione del Museo di Casa Romei.
Il brano del vangelo di Marco 6,30-34 ci mostra come già i discepoli di Gesù fossero sottoposti al problema dello stress e del riposo. Gli apostoli tornano dalla prima missione e sono tutti presi da ciò che hanno sperimentato e fatto. Non sono mai stanchi di raccontare i loro successi, e intorno a loro si è creato un movimento tale che non trovano più neppure il tempo per mangiare, tant'è ininterrotto il flusso di gente che va e che viene. Forse si aspettano di essere lodati per il loro zelo, e invece Gesù li esorta ad andare con lui in un luogo appartato, dove possano stare soli e riposare.
Penso che sia bene vedere in questo episodio l'umanità di Gesù, che non pronuncia sempre solo parole di elevata grandezza né si logora ininterrottamente per arrivare a tutto. Riesco a immaginarmi esattamente il suo volto mentre dice queste parole. Mentre gli apostoli si fanno addirittura in quattro e fanno perfino a meno di mangiare per lo zelo e la serietà, Gesù li fa scendere dalle nuvole: adesso riposatevi un po'! Si avverte il quieto umorismo, la cordiale ironia con cui li riporta sulla terra. Proprio in una tale umanità di Gesù diviene visibile la sua divinità, si capisce come è Dio.
La frenesia di ogni genere, anche la frenesia religiosa, è estranea all'immagine dell'uomo nel Nuovo Testamento. Ogni volta che crediamo di essere assolutamente indispensabili, ogni volta che pensiamo che il mondo o la Chiesa dipendano dal nostro incessante lavoro, ci sopravvalutiamo. Spesso è un atto di vera umiltà e onestà umana sapersi fermare, riconoscere i nostri limiti, prenderci quello spazio di respiro e di pace assegnato alla creatura umana.
Mariasusai Dhavamony, indiano, è stato professore di Storia delle Religioni e dell'Induismo all'Università Gregoriana. Autore di innumerevoli pubblicazioni, si occupò di spiritualità indù, di missioni in Oriente, di pluralismo religioso. Leggiamo qualche riga da "La meditazione nell'induismo", suo contributo al volume da lui curato La meditazione nelle grandi religioni, Assisi, Cittadella 1989:
«La meditazione, in quanto esercizio spirituale e pratica religiosa, ha una lunga tradizione nell'induismo. Nel contesto indù, la meditazione non significa semplicemente riflessione o considerazione, o un pensare profondo e continuato, sebbene questi esercizi intellettuali siano compresi specialmente nei gradi iniziali della meditazione. Uno può essere completamente assorto in un problema matematico o filosofico e trovarsi soggettivamente distaccato. La sua attività intellettuale può non avere alcun rapporto con la vita personale e il comportamento. Quando parliamo di meditazione, la intendiamo in senso spirituale ed esistenziale, vale a dire in quanto essa modifica l'esistenza e l'attività personale di chi fa meditazione e in quanto questi diviene gradualmente una cosa sola con la verità che contempla. Per cui la meditazione non è un puro esercizio intellettuale, o l'attività del solo intelletto, come sono la riflessione, la considerazione e il pensare prolungato, ma impegna l'intera persona, tutto il suo essere, e l'aiuta ad attuare la verità su cui fissa la sua mente. [...] L'argomento viene studiato in modo scientifico e rigoroso mediante l'analisi di importanti testi classici dell'induismo. Un simile studio dei testi è necessario non soltanto al fine di ritrarre accuratamente il significato della meditazione indù, ma anche per comprendere l'eredità religiosa dell'India sulla meditazione, non sempre presentata con precisione e obiettività».
La meditazione nell'induismo, sta in: La meditazione nelle grandi religioni, Assisi, Cittadella 1989, pp. 110-111. In biblioteca, di Mariasusai Dhavamony potete trovare anche Inculturazione, ed. San Paolo 2000, e molti articoli dalle riviste Concilium, Civiltà cattolica, Rassegna di teologia e altri ancora. Alla biblioteca si accede per appuntamento, in osservanza delle normative di prevenzione del contagio della malattia da Sars-Cov2.
(immagine tratta dal sito wccmitalia.org che ringraziamo)
Di John Main si legge abbondantemente nel piacevolissimo blog monachesimoduepuntozero.com, oltre che naturalmente nel sito dedicato alla meditazione cristiana. In tempi recenti Lorella Fracassa, forse la più competente studiosa italiana del monaco benedettino, è tornata ad occuparsene: l'aveva fatto nel 2014 con On the road con Maria, ci ritorna in questo 2021 con A caccia della lepre, ed. Lindau.
Nella nostra biblioteca abbiamo trovato un utile libretto, Imparare a meditare nella tradizione cristiana, edito da Berti, Piacenza 2005, che raccoglie le Conferenze al Getsemani di Main e La pratica quotidiana di Laurence Freeman.
Leggiamo qualche traccia dall'Introduzione:
«L'interesse e l'utilità di questo libro, comprovata in oltre venti anni, illustra la convinzione di John Main secondo la quale esiste un'unica essenziale vocazione cristiana. Essa consiste in una chiamata ad un radicale discepolato: a compiere in sé una totale conversione autotrascendente verso lo Spirito nel nostro cuore. Meditare da cristiani, nella visione di John Main, è semplicemente vivere fino in fondo la pienezza del discepolato cristiano nella profondità del nostro essere: rinnegare se stessi per seguire il maestro nel suo ritorno auto-trascendente verso il Padre. Per fare questo occorre che ci spostiamo dalla mente al cuore, dal credo intellettuale alla fede sentita con il cuore. La meditazione ci inizia a questo movimento di approfondimento della coscienza, guidandoci verso quel che John Main definiva "esperienza". La tradizione è il contesto di radicamento vivificante per il dispiegarsi di questa personale esperienza»
La Lattuga ha forte proprietà fredda e umida, se masticata può quindi alleviare calori eccessivi, e sarà ugualmente d'aiuto applicandola ben tritata; è utile allo stomaco, favorisce il sonno, ha effetto lassativo: tutti casi in cui giova maggiormente se consumata cotta; cura lo stomaco, se si mangia preferibilmente senza lavarla. Il seme di Lattuga fa svanire i sogni fallaci, e bevuto col vino reprime anche la diarrea; presa sovente, dà latte in abbondanza alla nutrice. Come sostengono alcuni, chi troppo spesso usa cibarsene subisce un oscuramento della vista.
Interessante pure il paragrafo dedicato alla rucola:
Dicono che la Rucola abbia modesta proprietà calorifica, non certamente secca. Mangiarne facilita la digestione e, masticata o ingerita, ha effetto diuretico. È utile se masticata dai bambini: fa andar via la tosse; unita a miele, purifica dalle macchie la pelle, sostengono, e libera il viso dalle lentiggini. La sua radice previamente lessata, tritata e applicata sulle ossa spezzate ne estrae i frammenti. Se si prende col vino il suo seme tritato, è opinione assodata che curi qualsiasi morso velenoso. Spalmata con fiele di bue puriifca la pelle dalle macchie scure. Quel che dirò è stupefacente: bevuta in abbondanza col vino, affermano che renda insensibili ai colpi di verga. Se ai condimenti il cuoco aggiungerà l'erba od il seme di essa, si dice che ne renda gradevole il gusto: per questo i Greci chiamano la Rucola Euzomon, poiché il suo succo ha un buon sapore. Masticata o ingerita, è alquanto afrodisiaca, come confermano ugualmente i medici e, più numerosi, i poeti. Mangiata con la lattuga, quest'erba è salutare; infatti il caldo misto al freddo dà un giusto equilibrio.
(foto tratta dal sito dell'Arcidiocesi che ringraziamo)
È impresa ardua tentare di descrivere l'eccezionale attualità di Ivan Illich nelle poche righe di testo cui abbiamo abituato i lettori. Basta dare un'occhiata anche cursoria ai titoli delle sue opere per coglierne il ruolo di anticipatore di problematiche ancora oggi di primaria importanza. Al 1973 datano ad esempio Energia ed equità, conosciuto anche con il sottotitolo Elogio della bicicletta, e La convivialità, nel quale teorizza la società conviviale come antidoto alla frustrazione causata dalla società industriale.
Straordiariamente attuale Nemesi medica, uscito nel lontano 1976, in cui già il filosofo austriaco metteva sotto accusa i processi di medicalizzazione del disagio. Alla luce del biennio appena trascorso se ne apprezzano la dimensione profetica e la fenomenale lungimiranza.
Ancora, nella corsa ad uno sviluppo privo di regole intravide le radici di quella creazione di "bisogni di base" che avrebbero generato nell'umanità la dipendenza dai beni materiali ed il conseguente squilibrio tra possessori e non (Per una storia dei bisogni, 1977).
Nel 1984 uscì Genere. Per una critica storica dell'uguaglianza, dove già abbozzando la distinzione tra sesso e genere metteva sotto la lente d'ingrandimento la percezione del corpo e le sue relazioni col mondo.
Ma lo scrittore, storico, pedagogista, filosofo fu in verità anche teologo, ed è ovviamente in questa veste che lo incontriamo qui. Curò infatti la voce Ugo di San Vittore all'interno della raccolta La lectio divina nella vita religiosa, uscita nel 1994 per i tipi di Qiqajon. Ne leggiamo un breve passo:
«Per il monaco, come per il retore classico o per il sofista, la lettura coinvolge tutto il corpo. Tuttavia essa, in ambito monastico, non è un'attività bensì un modo di vivere. Quale che sia il lavoro che si svolge, conformemente alla regola del monastero, vige la lettura continua. Questa regola, instaurata da Benedetto, divide la giornata in due attività giudicate d'eguale importanza: ora et labora, prega e lavora. Sette volte al giorno, la piccola comunità del monastero ideale si riunisce in chiesa. I monaci ascoltano le letture cantate con un tono che resta quasi sempre lo stesso, con alcune inflessioni rigorosamente determinate per sottolineare le domande, il discorso diretto o la fine d'una pericope, e cantano i salmi. Nel tempo che intercorre, quando il monaco commercia o lavora, baratta o cesella, la recitazione in comune si trasforma in un brusio in cui ognuno cita i versetti che preferisce. Questi versetti sono il sentiero percorso nel suo pellegrinare verso il cielo, quando prega così come quando lavora. La lettura impregna i suoi giorni e le sue notti».
"Il primo compito dell'uomo è rientrare all'interno e incontrare se stesso. Chi non ha incontrato se stesso come potrà incontrare Dio? Non si incontra il sé indipendentemente da Dio. Non si incontra Dio indipendentemente dal sé. Finchè non abbiamo incontrato noi stessi nella nudità interiore - una nudità più sconvolgente ancora della nudità esteriore - viviamo in un mondo fabbricato da noi stessi, immaginato dalla nostra mente. Noi, il mondo e Dio non siamo che sogni che si sognano, e non la realtà. Chi non si è visto nudo, crederà che tutti siano venuti al mondo con le mutande e con un paio di calzini. Il Dio adorato da uno che non ha incontrato se stesso nudo, è un idolo".
La nudità è un'immagine classica nella storia della spiritualità. Nudo equivale a essenziale, privo di sovrastrutture. Per trovare l'essenza bisogna spogliarsi di tutto ciò che è accidentale, sovrammesso: occorre perciò la plotiniana afairesis, il toglier via, il distacco.
Riflettendo sulla caratteristica principale del samnyasin, ovvero del monaco della tradizione indù, Le Saux nota perciò:
"Anche questo è essenziale al monaco indù. Il non io, non mio per essere genuino deve andare così lontano. Sprofondare in me, nel più profondo di me stesso. Dimenticare il mio io, perdermi nell'io dell'Atman divino che è all'origine del mio essere. E, in questo unico e primordiale Io, sentirmi tutti gli esseri. È da qui che hanno origine non-violenza, compassione, eccetera"».
L'articolo è tratto da "Rivista di Ascetica e Mistica" n. 2/2013, contenente gli Atti del Convegno tenuto a Camaldoli dal 22 al 24 ottobre 2010 a cura di Paolo Trianni, Marco Vannini, dal titolo Nella caverna del cuore. L'itinerario mistico di Henri Le Saux in India. Il pdf della rivista si può richiedere a don Andrea Zerbini, biblioteca del CEDOC di Santa Francesca Romana, all'indirizzo mail andzerbini1953@gmail.com
"Uomini e profeti" non è solo il titolo di una fortunata trasmissione di cultura religiosa trasmessa da Rai Radio 3. È pure il titolo di una collana editoriale di Morcelliana, uscita nella prima decade degli anni 2000. La dirigeva Gabriella Caramore, che tra il 1993 e il 2018 condusse l'omonimo programma radiofonico.
Leggiamo un breve passo da La fatica della luce, edito da Morcelliana nel 2008. Poche parole che aprono il primo capitolo, Il luogo fecondo.
«Ho sempre avuto una particolare predilezione per l'idea del confine. Forse questo accade a tutte le persone che non si trovano perfettamente a proprio agio nel mondo e nel tempo stesso in cui vivono, e auspicano che, sempre, vi possa essere una via di fuga, un altro luogo in cui andare, un altro tempo in cui vivere. Forse accade anche - di amare il confine - a chi non si trova a proprio agio nemmeno in se stesso, e può sempre sognare che, in un altro luogo e in un altro tempo, la sua vita potrebbe subire una accelerazione di senso. Ma il confine non è solo la figura di una via di fuga per sognatori malinconici. È anche un luogo di sfida, una modalità di conoscenza del mondo, di incremento d'essere. Ed è questo, credo, che mi attira di più nell'idea del confine: la sua mobilità, le innumeravoli variazioni di cui è suscettibile. Mutevole come un orizzonte scrutato da punti prospettici ogni volta diversi, la figura del confine ci chiede di essere assiduamente indagata. Tanto più oggi, che i suoi tratti sembrano insistentemente sfuggirci, sotto l'onda di una geografia in movimento che ridisegna di continuo le mappe delle nazioni, delle immense periferie urbane che inghiottono i centri, e dei grandi meccanismi simbolici di inclusione e esclusione in costante smottamento.
Molteplici sono i suoi profili. Il confine può delimitare uno spazio del chiuso, della protezione e del riparo: una casa, una città, una appartenenza. Ma poiché dentro la sicurezza può accadere di soffocare, e di eccesso di tutela si può addirittura morire, può nascere, allora, il desiderio di guardare al di fuori, di sognare un lontano, di assaporare sconfinamenti, immaginare alterità. È vero che al di fuori del guscio difeso si possono profilare minacce, pericoli, agguati. Ma anche nuove ricchezze, ebbrezze mai prima conosciute, bellezze mai prima fantasticate. E non è questo - questo miscuglio di attrazione e spavento - che ci assale quando osiamo sporgerci su ciò che non conosciamo? Non è dalla pulsione a protendersi fuori di sé che sono nate tutte le scoperte, da quelle geografiche a quelle del sapere, o anche a quelle dell'amore? Dal protendersi fuori, ma anche dal lasciarsi penetrare: perchè ogni confine, per quanto solido e stabile, ha sempre un varco attraverso il quale passare, o attraverso il quale qualcuno o qualcosa ci può raggiungere».
Il libro è presente negli scaffali della Biblioteca del Seminario, è accessibile al prestito alle modalità di regolamento.
«La vita non è qualcosa che ci scivola addosso, ma un mistero stupefacente, che in noi provoca la poesia»
«Quando a una persona manca quella dimensione poetica, diciamo, quando manca la poesia, la sua anima zoppica»
Esce per i tipi di Scaranari editore - Ferrara un delizioso libretto dedicato a La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno. Ne è autrice Daniela Fratti, laurea in Medicina e Chirurgia, Master in Psicopatologia e Scienze forensi, Membro dell'Accademia delle Scienze di Ferrara; scrittrice di cui già abbiamo parlato in questo blog, segnatamente qui e qui.
Come si evince dal titolo, il libro tratta le tradizioni popolari inerenti le guaritrici, figure quasi sempre femminili ben note alla comunità, specie nelle zone rurali dove spesso erano le uniche depositarie della sapienza della cura. Il libro è distribuito da Sognalibro, libreria storica nella Ferrara medievale, luogo carissimo a quanti hanno ancora a cuore il libro stampato.
Leggiamo insieme qualche riga dal volume:
«La Medicina del segno, arte sanitaria antica quanto l'uomo, è diffusamente presente nella tradizione orale del nostro paese. Non esistono documenti scritti di questa disciplina dagli aspetti per molti versi sacerdotali, e l'assenza di testimonianze grafiche è anzi uno dei suoi attributi esclusivi, capace di identificarla con certezza in mezzo a molte altre attività affini: parole e segni che accompagnavano la cura non possono essere trascritti ma vanno mandati tassativamente a memoria. Quasi sempre questa operazione mnemonica si effettua la notte della vigilia di Natale o, in qualche caso, la mattina di Pasqua. Oltre all'obbligo dell'apprendimento mnemonico vi è anche quello di non poter pronunciare ad alta voce le formule che accompagnano il rito, spesso dialettali. Sono rituali che per tradizione non possono essere affidati alla scrittura, pena l'inefficacia della cura: qualcuna mi ha confidato di avere trascritto formule particolarmente complesse su di un foglietto, e di averlo poi nascosto talmente bene da non riuscire più a rintracciarlo, perdendo in tal modo l'opportunità di effettuare alcuni dei riti più difficili. Sebbene si tratti di una delle condizioni chiave per l'applicazione di queste cure, nessuna delle guaritrici da me incontrate ha saputo darmi conto dell'origine di questa proibizione assoluta: tutte concordano nell'affermare che scrivere le parole è come renderle del tutto inefficaci. Questo aspetto rende la Medicina del segno uno degli ultimi patrimoni culturali del nostro paese trasmessi esclusivamente attraverso l'oralità, con l'ulteriore peculiarità che la trasmissione orale di questa conoscenza non è dovuta all'ignoranza della scrittura, come per altri analoghi esempi, ma al rischio di eterno oblio a seguto della pronuncia ad alta voce delle formule oppure della loro trascrizione».
(Giotto, Ingresso a Gerusalemme, Cappella degli Scrovegni a Padova)
È iniziata ieri, con la benedizione delle palme, la settimana della Passione di nostro Signore. Sarà una Settimana Santa molto particolare, data l'assenza dei riti collettivi così cari alla pietà cristiana, così preziosi nel loro concorrere a tenere l'attenzione sul grande Mistero che si sta per compiere. Ci aiutiamo dunque con la lettura di qualche riga tratta da un'omelia di mons. Giuseppe Angelini, teologo morale, autore fecondo e docente alla facoltà teologica dell'Italia Settentrionale. L'omelia è dedicata alla domenica delle Palme, ma la sua straordinaria attualità parla a tutti noi.
«L'aspetto più radicale della prova alla quale tutti noi siamo sottoposti e che minaccia di spogliarci di ogni fiducia è la solitudine. La vita è per tutti noi possibile unicamente a questa condizione, che l'attesa e addirittura il credito di altri nei nostri confronti la mostri praticabile. Quando invece si chiude attorno a noi il cerchio della solitudine, si spegne ogni attesa nei confronti del futuro, si spegne dunque la speranza, minaccia di rimanere nell'animo soltanto lo spazio per un inquietante desiderio di silenzio. Per parlare a chi vive questa prova della solitudine e del silenzio Gesù stesso dovette personalmente viverla. Nel racconto di Marco appare particolarmente evidente il tratto della progressiva solitudine alla quale Gesù è condannato; tutto pare cospirare a scavare un profondo intervallo di silenzio tra il Crocifisso e la moltitudine che sta intorno.
Vogliono Gesù solo innanzitutto i sommi sacerdoti e gli scribi, i quali cercavano il modo di impadronirsi di Gesù con inganno, per ucciderlo. Avevano bisogno di un inganno, perchè farlo allor scoperto, e addirittura durante la festa di Pasqua, li avrebbe esposti al rischio di un tumulto di popolo.
Il popolo non ci deve essere, non deve in alcun modo sapere.
Ma non è in ogni caso fatale che così accada, a prescindere dai propositi di sacerdoti e scribi? No, non è ineluttabile; pochi giorni prima, quando Gesù era entrato in Gerusalemme, si era radunata una folla. Quanto numerosa? Non sappiamo, ma in ogni caso una folla sufficiente per far temere tumulti. Il processo di Gesù e la sua conseguente passione hanno bisogno di censura».
da Andiamocene altrove - Omelie dell'anno B, Milano, Glossa 2008
Chi fosse interessato a conoscere l'intera omelia, può fare richiesta del pdf scrivendo a: stefania.biblioteca@gmail.com
Oggi, 25 marzo, il Seminario celebra la sua titolazione: è infatti dedicato all'evento salvifico dell'Annunciazione. Ripercorriamone cursoriamente un po' di storia.
La sua prima sede fu quella santa Giustina, in fondo all’odierna
via Garibaldi, la cui chiesa, antichissima, era stata eretta dai monaci
benedettini cassinesi alle dirette dipendenze del cenobio benedettino di santa Giustina a Padova.
Al momento della destinazione a Seminario, l’edificio
conservava ancora traccia di un ospedale per infermi, che era stata la prima
sede nella quale Barbara d’Austria aveva radunato le ragazze rimaste orfane o
disperse dalla famiglia in seguito al terremoto del 1570, per le quali poi la
stessa duchessa fonderà il conservatorio di santa Barbara nella zona di corso
Giovecca.
Nel 1584, in ottemperanza alle costituzioni del Concilio di
Trento (1545-1563) il vescovo Paolo Leoni ottiene da papa Gregorio XIII l’autorizzazione ad istituire il Seminario.
Il successore del vescovo Leoni, cioè Giovanni Fontana, il
vescovo che più di tutti incarnava le istanze di san Carlo Borromeo, diede un
grande impulso allo sviluppo dell’istituzione ampliando gli edifici e
acquistando l’orto in una zona contigua.
Il vescovo Fontana è peraltro responsabile dell’istituzione
di un organismo collaterale a quello seminariale, cioè il collegio dei
“chierici turchini”. Essi costituivano la “riserva” dei candidati, ed
affiancavano i seminaristi nel servizio liturgico della Cattedrale.
Il 22 luglio 1584, domenica IX dopo la Pentecoste, 14 putti
rivestiti di tonaca rossa prendono possesso della loro casa di formazione. Per
chi ne ha curiosità, il bel libro di mons. Tiberio Bergamini ne riporta i nomi
uno per uno.
Il primo sacerdote ad uscire dal seminario locale è don
Pietro Anti, ordinato il 23 settembre dello stesso 1584. Dalla seconda visita pastorale di Giovanni Fontana
apprendiamo che don Pietro Anti nel 1597 era parroco ad Albarea, parrocchia che
solo l’anno precedente era stata separata da Ducentola. Questo paese che dista
circa 18 km da Ferrara è
importante perché vi si tenne nel medesimo 1584 la prima giornata pro Seminario,
che per la cronaca rese «due sacchi di formento per l’amor di Dio».
Nel 1721 il cardinal Ruffo decise di trasferire
la sede del seminario nell’antico palazzo Costabili-Trotti a motivo della sua
vicinanza con la cattedrale, dove i seminaristi dovevano attendere alle
celebrazioni liturgiche.
Il card. Marcello Crescenzi nel 1755 lo amplia con l’unione
di un altro palazzo attiguo e di alcune case, che si trovavano verso la strada di Gorgadello, odierna via Adelardi.
Nel 1953 viene dotato di nuove aule scolastiche
da mons. Ruggero Bovelli, che nel medesimo anno cura pure altri lavori di rinnovamento.
È l’arcivescovo Natale Mosconi che progetta e realizza, nel 1955-56, l’imponente edificio che ci
ospita. La scelta del luogo, all’immediata periferia della città, risponde a
nuove esigenze pedagogiche e numeriche. La sede viene trasferita nel 1956 e già
durante l’episcopato dello stesso mons. Mosconi vengono realizzati notevoli
ampliamenti nel 1961 e nel 1976.
Il seminario abita dunque questa sede da 65
anni.
Ad maiora!
Ricorre in questi giorni il secondo anniversario della morte di madre Anna Maria Canopi, benedettina, prima badessa dell'abbazia Mater Ecclesiae, da lei fondata sull'isola di San Giulio d'Orta. Mentre ne celebriamo il ricordo, rileggiamo poche brevi parole da un suo prezioso libretto, Voi mi conoscete, Lectio divina sulla vita consacrata, uscito a Roma nel 1981 per la casa editrice delle Paoline.
Si terrà domani 25 febbraio alle 18 la diretta fb sulla pagina del Coordinamento Teologhe Italiane, e sulla piattaforma Zoom fino a capienza, la presentazione del volume "Verso l'ignoto. Donne moderniste di primo Novecento", curato da Roberta Fossati, socia fondatrice della S.I.S., Società Italiana delle Storiche.
Mariangela Maraviglia sulla sua pagina in Academia lo presenta così:
«Gli anni che collegano e differenziano i secoli XIX e XX sono ricchi di fermenti ideali, ecclesiali e politici. Il fenomeno modernista incrocia tutto questo e svela al complessità delle sue istanze di riforma ecclesiale e riformulazione teologica, di trasformazione civile e articolazione pedagogica. Le donne vi sono coinvolte a molti livelli: nella relazione di amicizia testimoniate negli epistolari, nelle iniziative educative e solidali, nella letteratura impegnata, nel sogno di un diverso rapporto fra i sessi, nell'ideale di autenticità religiosa al di là delle barriere confessionali. In una ricca trama biografica, letteraria e geografica si incrociano nomi noti o poco conosciuti come quelli di Dora Melegari, Adelaide Coari, Antonietta Giacomelli, sorella Maria di Campello, Teresa Pioli, Maria Montessori. Altre novellatrici e intellettuali, giornaliste e poetesse, educatrici e scrittrici per l'infanzia formano una galassia che resta in parte sommersa. In questo studio riescono non solo a emergere, ma anche a mostrare le connessioni che ne fanno una sorta di comunità solidale. Un racconto avvincente pieno di volti e di memorie e ricco di sogni, che è al tempo stesso un valido strumento di ricerca e di ricognizione bibliografica».
Verso l'ignoto. Donne moderniste di primo Novecento, Firenze, Nerbini 2021
Padre Giovanni Vannucci, servita, è una delle figure che più incarnano lo spirito del Concilio Vaticano II, nonostante difficoltà e fraintendimenti che ne hanno affaticato la ricezione. Presenza luminosa nella spiritualità del Novecento, ne troviamo testimonianza nelle numerose raccolte di prediche, riflessioni, consigli spirituali.
Leggiamo poche righe da una sua omelia del 16 maggio 1976, significativamente titolata Diffondere, come la pianta, bellezza, pace, libertà, silenzio.
«Non possiamo pretendere che la linfa di Cristo percorra la coscienza umana se noi che crediamo non ci trasformiamo nella realtà di Cristo. Siamo i nuovi sali che Cristo ha introdotto nella coscienza degli uomini, i nuovi glucosi. Come la linfa che Cristo porta alla coscienza dell'uomo e il nutrimento che la linfa porta alla pianta; come la linfa che Cristo comunica alla nostra coscienza e che noi dobbiamo far vivere. Allora che cosa dobbiamo fare per essere cristiani: dobbiamo stare a terra? No. Dobbiamo stare in alto? No. Tendere con impegno totale e risoluto alla conquista dello spirito? No.
Dobbiamo riordinare la nostra vita e cominciare, come la pianta, a diffondere bellezza, pace, libertà, silenzio.
E che bisogno c'è di silenzio! Nei giorni scorsi ho avuto ospiti alcuni frati, impegnati nella ricerca spirituale. Sono, mi sono accorto, nevrotici e discorsivi. In noi c'è il cervello, uno strumento molto importante; ma al di là del cervello, al di là delle cose che pensiamo, c'è il silenzio, la nostra mente, che dev'essere creatrice. Ed è creatrice quando coglie l'essenza delle cose, il mistero delle cose. E quando lo coglie non fa lunghi discorsi concatenati, ma tace. E l'uomo mette a posto un sasso, mette a posto una pianta, mette a posto un mobile mal collocato, pulisce una stanza, adorna di bellezza l'ambiente e la città in cui vive; quando parla, il suo parlare è carico della potenza che viene dal silenzio interiore, dall'equilibrio interiore che ha raggiunto».
G. Vannucci, Nel cuore dell'essere. Prediche alle Stinche, Milano, Mondadori 1998, p. 71.
Ermes Ronchi è conosciuto ai più per il suo avvicendamento a Raniero Cantalamessa nella conduzione della rubrica Le ragioni della speranza, appuntamento del sabato all'interno del programma RAI A sua immagine che completa il suo palinsesto la domenica mattina.
È altresì figura interessantissima della riflessione spirituale contemporanea che si pone alla confluenza delle sensibilità di padre Vannucci e di David Maria Turoldo.
Leggiamo insieme qualche riga da Dieci cammelli inginocchiati, Milano, Paoline 2011; segnatamente, a p. 107:
«Quando vuoi pregare, entra nel segreto» (Mt 6,6)
"Entra nella camera più nascosta. Secondo tutta la tradizione dei Padri del deserto, la camera più nascosta è il proprio corpo. «La cella del monaco sono i limiti stessi del suo corpo. Là c'è la sede della sapienza» (Giovanni Climaco).
In questo loghion di Gesù, oltre all'interpretazione immediata, quella di non apparire ma di essere, entra in gioco la vita interiore che si collega al deserto e al silenzio.
«Poco a poco, al di là delle forme secondarie, la preghiera deve farsi attesa di Dio. Vuoto attento, raccolto, amante. Niente di esteriore corrisponde ormai a una tensione interiore» (Simone Weil).
Povertà. Il Nada di Giovanni della Croce e Teresa d'Avila.
La nostra preghiera deve essere attesa di Dio, fino a che egli venga e penetri in essa, attraverso tutte le sue soglie, le sue vie, i suoi sensi.
Giovanni Cassiano spiega come pregare in segreto: «Ecco come compiere il precetto della camera segreta. Noi preghiamo nella nostra camera quando ritiriamo il cuore dal tumulto dei pensieri e delle preoccupazioni, e in una specie di colloquio segreto e di dolce amicizia, noi sveliamo al Signore i nostri desideri. Preghiamo con la porta chiusa quando invochiamo, senza aprire le labbra, colui che non tiene conto delle parole, ma guarda al cuore» (Conferenze, IX, 35)".
E' in pieno svolgimento in Umbria l'incontro del G7 sul tema " Disabilità e inclusione ". Per l'Italia parlerà Aless...