giovedì 16 dicembre 2021

Presentazione libraria


Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
domenica prossima, 19 dicembre alle h. 11 nel salone d'onore del Museo di Casa Romei sarà presentato il libro Segnora illustrissima : stile e vesti delle clarae donne del Rinascimento e del Barocco italiani, di Elisabetta Gnignera, storica del costume. Introdurrà la dott.ssa Laura Graziani Secchieri; sarà presente l'Autrice.
L'evento è realizzato in collaborazione con la libreria Sognalibro e il Gruppo Archeologico Ferrarese APS, col contributo della Direzione del Museo di Casa Romei.
Il volume presenta cinque straordinarie figure femminili: Caterina Sforza (1463-1509), Lucrezia Borgia (1480-1519), Isabella d'Este (1474-1539), Vittoria Colonna (1490-1547) e Olimpia Maidalchini Pamphilij (1591-1657); donne che hanno fatto la storia dell'abbigliamento e plasmato l'estetica del loro tempo.
Per informazioni: libreria Sognalibro, via Saraceno 43, n. tel. 0532 204644

venerdì 1 ottobre 2021

Attualità di Benedetto XVI

 

Le riflessioni di papa Ratzinger mantengono inalterata nel tempo la loro straordinaria modernità. Leggiamo da Cercate le cose di lassù, Milano, ed. Paoline 2005, un breve passo tratto dal paragrafo "Sapersi riposare", pp. 125 e sgg. 

Il brano del vangelo di Marco 6,30-34 ci mostra come già i discepoli di Gesù fossero sottoposti al problema dello stress e del riposo. Gli apostoli tornano dalla prima missione e sono tutti presi da ciò che hanno sperimentato e fatto. Non sono mai stanchi di raccontare i loro successi, e intorno a loro si è creato un movimento tale che non trovano più neppure il tempo per mangiare, tant'è ininterrotto il flusso di gente che va e che viene. Forse si aspettano di essere lodati per il loro zelo, e invece Gesù li esorta ad andare con lui in un luogo appartato, dove possano stare soli e riposare. 

Penso che sia bene vedere in questo episodio l'umanità di Gesù, che non pronuncia sempre solo parole di elevata grandezza né si logora ininterrottamente per arrivare a tutto. Riesco a immaginarmi esattamente il suo volto mentre dice queste parole. Mentre gli apostoli si fanno addirittura in quattro e fanno perfino a meno di mangiare per lo zelo e la serietà, Gesù li fa scendere dalle nuvole: adesso riposatevi un po'! Si avverte il quieto umorismo, la cordiale ironia con cui li riporta sulla terra. Proprio in una tale umanità di Gesù diviene visibile la sua divinità, si capisce come è Dio.

La frenesia di ogni genere, anche la frenesia religiosa, è estranea all'immagine dell'uomo nel Nuovo Testamento. Ogni volta che crediamo di essere assolutamente indispensabili, ogni volta che pensiamo che il mondo o la Chiesa dipendano dal nostro incessante lavoro, ci sopravvalutiamo. Spesso è un atto di vera umiltà e onestà umana sapersi fermare, riconoscere i nostri limiti, prenderci quello spazio di respiro e di pace assegnato alla creatura umana.


lunedì 20 settembre 2021

La meditazione nelle parole di Mariasusai Dhavamony

Mariasusai Dhavamony, indiano, è stato professore di Storia delle Religioni e dell'Induismo all'Università Gregoriana. Autore di innumerevoli pubblicazioni, si occupò di spiritualità indù, di missioni in Oriente, di pluralismo religioso. Leggiamo qualche riga da "La meditazione nell'induismo", suo contributo al volume da lui curato  La meditazione nelle grandi religioni, Assisi, Cittadella 1989:

«La meditazione, in quanto esercizio spirituale e pratica religiosa, ha una lunga tradizione nell'induismo. Nel contesto indù, la meditazione non significa semplicemente riflessione o considerazione, o un pensare profondo e continuato, sebbene questi esercizi intellettuali siano compresi specialmente nei gradi iniziali della meditazione. Uno può essere completamente assorto in un problema matematico o filosofico e trovarsi soggettivamente distaccato. La sua attività intellettuale può non avere alcun rapporto con la vita personale e il comportamento. Quando parliamo di meditazione, la intendiamo in senso spirituale ed esistenziale, vale a dire in quanto essa modifica l'esistenza e l'attività personale di chi fa meditazione e in quanto questi diviene gradualmente una cosa sola con la verità che contempla. Per cui la meditazione non è un puro esercizio intellettuale, o l'attività del solo intelletto, come sono la riflessione, la considerazione e il pensare prolungato, ma impegna l'intera persona, tutto il suo essere, e l'aiuta ad attuare la verità su cui fissa la sua mente. [...] L'argomento viene studiato in modo scientifico e rigoroso mediante l'analisi di importanti testi classici dell'induismo. Un simile studio dei testi è necessario non soltanto al fine di ritrarre accuratamente il significato della meditazione indù, ma anche per comprendere l'eredità religiosa dell'India sulla meditazione, non sempre presentata con precisione e obiettività».

La meditazione nell'induismo, sta in: La meditazione nelle grandi religioni, Assisi, Cittadella 1989, pp. 110-111. In biblioteca, di Mariasusai Dhavamony potete trovare anche Inculturazione, ed. San Paolo 2000, e molti articoli dalle riviste Concilium, Civiltà cattolica, Rassegna di teologia e altri ancora. Alla biblioteca si accede per appuntamento, in osservanza delle normative di prevenzione del contagio della malattia da Sars-Cov2.

 

lunedì 30 agosto 2021

John Main

 
(immagine tratta dal sito wccmitalia.org che ringraziamo)

Di John Main si legge abbondantemente nel piacevolissimo blog monachesimoduepuntozero.com, oltre che naturalmente nel sito dedicato alla meditazione cristiana. In tempi recenti Lorella Fracassa, forse la più competente studiosa italiana del monaco benedettino, è tornata ad occuparsene: l'aveva fatto nel 2014 con On the road con Maria, ci ritorna in questo 2021 con A caccia della lepre, ed. Lindau.
Nella nostra biblioteca abbiamo trovato un utile libretto, Imparare a meditare nella tradizione cristiana, edito da Berti, Piacenza 2005, che raccoglie le Conferenze al Getsemani di Main e La pratica quotidiana di Laurence Freeman.
Leggiamo qualche traccia dall'Introduzione:

«L'interesse e l'utilità di questo libro, comprovata in oltre venti anni, illustra la convinzione di John Main secondo la quale esiste un'unica essenziale vocazione cristiana. Essa consiste in una chiamata ad un radicale discepolato: a compiere in sé una totale conversione autotrascendente verso lo Spirito nel nostro cuore. Meditare da cristiani, nella visione di John Main, è semplicemente vivere fino in fondo la pienezza del discepolato cristiano nella profondità del nostro essere: rinnegare se stessi per seguire il maestro nel suo ritorno auto-trascendente verso il Padre. Per fare questo occorre che ci spostiamo dalla mente al cuore, dal credo intellettuale alla fede sentita con il cuore. La meditazione ci inizia a questo movimento di approfondimento della coscienza, guidandoci verso quel che John Main definiva "esperienza". La tradizione è il contesto di radicamento vivificante per il dispiegarsi di questa personale esperienza»

giovedì 29 luglio 2021

Charles de Foucauld nelle parole di Antoine Chatelard

 



«I primi quindici anni della vita di Charles de Foucauld, secondo la sua stessa testimonianza, trascorrono in una famiglia credente e praticante. Di solito, questo periodo della sua infanzia è descritto come un tempo caretterizzato dall'infelità. Ma non è affatto questo il ricordo che Charles de Foucauld ha conservato dei suoi primi anni: per lui infatti erano stati il tempo della felicità. E tuttavia, quando ha soltanto sei anni, perde in poco tempo, uno dopo l'altro, entrambi i genitori: prima la madre, e quindi il padre, che non ha quasi conosciuto visto che era affetto da una malattia che lo teneva da tempo lontano dalla famiglia. Se è vero che quasi mai parla di lui, egli conserva invece un vivo ricordo della madre che considera una santa. Ma Charles serberà soprattutto il ricordo del nonno, il colonnello de Morlet, che ha preso presso di sé Charles e sua sorella minore Marie. Più avanti leggeremo, a riprova di questa affermazione, ciò che più tardi scriverà al momento della morte di quest'ultima. Senza gli affetti di una tale educazione giudicata da alcuni troppo lassista, sarebbe stato possibile a Charles diventare quell'uomo libero che ha suscitato l'ammirazione di tutta una generazione?
Un altro ricordo d'infanzia che lo segna è la guerra del 1870, che fu per lui, come per molti francesi - specie per gli abitanti dell'Alsazia e della Lorena - un tempo di esilio. Quando Charles ha dodici anni, la sua famiglia è costretta a lasciare Strasburgo e a rifugiarsi per quanche tempo nella parte occidentale della Francia, e poi in Svizzera. Le sue lettere del periodo, indirizzate a un cugino, palesano tutto ciò che poteva rappresentare per un bambino questo periodo di guerra e di umiliazione. Tutto ciò va attentamente ricordato - anche se non ha in questo momento una importanza primaria - perchè la sua vita giungerà al suo epilogo durante un'altra guerra.
Tra i ricordi felici, Charles annovera il giorno del diciannovesimo compleanno di questa cugina a lui così cara: in quel momento egli ha undici anni, e la considera già come sua confidente e come una seconda madre, dato che lui e la sorella passavano le vacanze in Normandia presso la famiglia Moitessier dove si ritrovavano con le cugine Marie e Catherine. Lo scambio epistolare tra Marie e Charles incomincia allora».
Antoine ChatelardCharles de Foucauld verso Tamanrasset, Bose, edizioni Qiqajon 2002

venerdì 23 luglio 2021

Oddone di Meung e le Virtù delle erbe

 

(immagine tratta dal sito Summa gallicana che ringraziamo)
Ben poco si sa su Oddone (o Odone) di Meung, se non che visse in Francia, forse nella zona della Loira, nella prima metà del Mille. Il suo De viribus herbarum carmen è il primo trattato di botanica dato alle stampe: venne infatti pubblicato a Napoli il 9 maggio 1477 da Arnaldo da Bruxelles sotto l'attribuzione Macer Floridus, pseudonimo dello stesso Oddone. Il testo in esametri descrive le proprietà medicinali di 77 erbe, mostrando la conoscenza di Plinio, Galeno, Dioscoride, Ippocrate. È proposto in traduzione italiana da Città Nuova, nella collana Fonti medievali per il nuovo millennio. Leggiamo insieme cosa dice della lattuga:

La Lattuga ha forte proprietà fredda e umida, se masticata può quindi alleviare calori eccessivi, e sarà ugualmente d'aiuto applicandola ben tritata; è utile allo stomaco, favorisce il sonno, ha effetto lassativo: tutti casi in cui giova maggiormente se consumata cotta; cura lo stomaco, se si mangia preferibilmente senza lavarla. Il seme di Lattuga fa svanire i sogni fallaci, e bevuto col vino reprime anche la diarrea; presa sovente, dà latte in abbondanza alla nutrice. Come sostengono alcuni, chi troppo spesso usa cibarsene subisce un oscuramento della vista.

Interessante pure il paragrafo dedicato alla rucola:

Dicono che la Rucola abbia modesta proprietà calorifica, non certamente secca. Mangiarne facilita la digestione e, masticata o ingerita, ha effetto diuretico. È utile se masticata dai bambini: fa andar via la tosse; unita a miele, purifica dalle macchie la pelle, sostengono, e libera il viso dalle lentiggini. La sua  radice previamente lessata, tritata e applicata sulle ossa spezzate ne estrae i frammenti. Se si prende col vino il suo seme tritato, è opinione assodata che curi qualsiasi morso velenoso. Spalmata con fiele di bue puriifca la pelle dalle macchie scure. Quel che dirò è stupefacente: bevuta in abbondanza col vino, affermano che renda insensibili ai colpi di verga. Se ai condimenti il cuoco aggiungerà l'erba od il seme di essa, si dice che ne renda gradevole il gusto: per questo i Greci chiamano la Rucola Euzomon, poiché il suo succo ha un buon sapore. Masticata o ingerita, è alquanto afrodisiaca, come confermano ugualmente i medici e, più numerosi, i poeti. Mangiata con la lattuga, quest'erba è salutare; infatti il caldo misto al freddo dà un giusto equilibrio.

venerdì 16 luglio 2021

Gualtiero Medri, "La chiesa e il convento delle Carmelitane Scalze"

 
(foto tratta dal sito dell'Arcidiocesi che ringraziamo)

Si celebra oggi, 16 luglio, la Madonna del Carmine - il titolo sotto il quale viene venerata è, correttamente, Nostra Signora del Monte Carmelo.
Il monte Carmelo, Kerem-el, letteralmente «Vigna di Dio», è considerato uno dei luoghi più belli della Palestina, e si trova nell'alta Galilea, a pochi chilometri da Nazareth.
A Ferrara il culto della Madonna del Carmine era celebrato nella chiesa di San Paolo, ne abbiamo parlato qui, nella chiesa di San Girolamo, pure sede dei carmelitani scalzi, oggi chiusa al culto per restauri, e nella chiesa di Santa Teresa Trasverberata, sede del convento delle Carmelitane Scalze.
Proprio su quest'ultima portiamo oggi la nostra attenzione, leggendo insieme qualche parola tratta dalla descrizione di Gualtiero Medri in Chiese di Ferrara nella cerchia antica, Bologna, Mignani 1967.

«Nel breve piazzaletto in angolo tra la Via Brasavola e Via Borgo Vado domina la Cesa dil Tarsìn, la chiesa delle Teresine, cioè la Chiesa delle Carmelitane scalze del Monastero di Santa Teresa Trasverberata la cui semplice facciata di pure linee classiche è dominata dall'alto tiburio in cui s'inarca la luminosa cupola. La Chiesa sorse su disegno di Gaetano Barbieri Architetto del Comune al quale accenna Giorgio Padovani nella sua insigne opera sugli Architetti Ferraresi.
[...]
Il monastero di Santa Teresa Transverberata delle Carmelitane Scalze ebbe il suo inizio nel 1739 per opera dei Padri Carmelitani che fin dal 1671 si erano stabiliti nella Chiesa e Convento di San Girolamo. A detti RR. Padri la sig.ra Bruschi Bentivoglio aveva fin dal 1671 fatto legale cessione di una sua casa per l'erezione di un Monastero di Carmelitane Scalze. È probabile, per quanto non vi siano documenti che l'attestino, che fosse questa la casa situata in Via Borgo Vado, tra il convento di Santa Maria in Vado e quello di S. Agostino, in cui nel 1739 si raccolsero a vita comune le prime cinque pietre fondamentali nel nuovo Monastero. Le pie donne vissero in un primo tempo in forma di Terziarie sotto la guida dei Padri Carmelitani Scalzi. Risulta però dalle cronache del Monastero che nel Novembre 1741 esse vestirono l'abito carmelitano e la fondazione venne regolarmente stabilita».

giovedì 8 luglio 2021

Straordinaria modernità di Ivan Illich (1926-2002)

 

È impresa ardua tentare di descrivere l'eccezionale attualità di Ivan Illich nelle poche righe di testo cui abbiamo abituato i lettori. Basta dare un'occhiata anche cursoria ai titoli delle sue opere per coglierne il ruolo di anticipatore di problematiche ancora oggi di primaria importanza. Al 1973 datano ad esempio Energia ed equità, conosciuto anche con il sottotitolo Elogio della bicicletta, e La convivialità, nel quale teorizza la società conviviale come antidoto alla frustrazione causata dalla società industriale.
Straordiariamente attuale Nemesi medica, uscito nel lontano 1976, in cui già il filosofo austriaco metteva sotto accusa i processi di medicalizzazione del disagio. Alla luce del biennio appena trascorso se ne apprezzano la dimensione profetica e la fenomenale lungimiranza.
Ancora, nella corsa ad uno sviluppo privo di regole intravide le radici di quella creazione di "bisogni di base" che avrebbero generato nell'umanità la dipendenza dai beni materiali ed il conseguente squilibrio tra possessori e non (Per una storia dei bisogni, 1977).
Nel 1984 uscì Genere. Per una critica storica dell'uguaglianza, dove già abbozzando la distinzione tra sesso e genere metteva sotto la lente d'ingrandimento la percezione del corpo e le sue relazioni col mondo.
Ma lo scrittore, storico, pedagogista, filosofo fu in verità anche teologo, ed è ovviamente in questa veste che lo incontriamo qui. Curò infatti la voce Ugo di San Vittore all'interno della raccolta La lectio divina nella vita religiosa, uscita nel 1994 per i tipi di Qiqajon. Ne leggiamo un breve passo:

«Per il monaco, come per il retore classico o per il sofista, la lettura coinvolge tutto il corpo. Tuttavia essa, in ambito monastico, non è un'attività bensì un modo di vivere. Quale che sia il lavoro che si svolge, conformemente alla regola del monastero, vige la lettura continua. Questa regola, instaurata da Benedetto, divide la giornata in due attività giudicate d'eguale importanza: ora et labora, prega e lavora. Sette volte al giorno, la piccola comunità del monastero ideale si riunisce in chiesa. I monaci ascoltano le letture cantate con un tono che resta quasi sempre lo stesso, con alcune inflessioni rigorosamente determinate per sottolineare le domande, il discorso diretto  o la fine d'una pericope, e cantano i salmi. Nel tempo che intercorre, quando il monaco commercia o lavora, baratta o cesella, la recitazione in comune si trasforma in un brusio in cui ognuno cita i versetti che preferisce. Questi versetti sono il sentiero percorso nel suo pellegrinare verso il cielo, quando prega così come quando lavora. La lettura impregna i suoi giorni e le sue notti».

martedì 22 giugno 2021

Marco Vannini, "Henri Le Saux in dialogo con la mistica renano-fiamminga"



(Jules Monchanin e Henri Le Saux, foto tratta dal sito Dialogue interreligieux monastique che ringraziamo)

«Il rapporto tra Le Saux e la mistica cosiddetta renano-fiamminga è ben noto. In particolare è stato oggetto di diversi studi il rapporto tra il benedettino francese e Meister Eckhart - cui qui ci limitiamo, per brevità. Ricordiamo innanzitutto le numerose pagine che al tema dedica Marguerite Marie-Davy nel suo Henri Le Saux - Abhishiktananda. Le passeur entre deux rives. Potremmo poi citare lo studio del benedettino dom André Gozier, Un eveilleur spirituel. Henri Le Saux, che ha un capitolo dal titolo "Le Saux et Eckhart", e anche altri titoli.
Sta di fatto comunque che Le Saux aveva letto Eckhart, per quanto lo permettevano le edizioni delle sue opere allora disponibili, e lo cita più volte. Ci limiteremo qui a toccare solo alcuni punti essenziali della vicinanza tra i due monaci, il domenicano tedesco e il benedettino francese, lontani nel tempo e nello spazio ma assolutamente prossimi spiritualmente.
La ricerca di Le Saux è, come per Eckhart, agostinianamente la ricerca di Dio e dell'anima - anzi secondo il precetto del Dio di Delfi, è ricerca prima dell'anima e poi di Dio: "Conosci te stesso, e poi conoscerai te stesso e Dio". Perciò scrive:

"Il primo compito dell'uomo è rientrare all'interno e incontrare se stesso. Chi non ha incontrato se stesso come potrà incontrare Dio? Non si incontra il sé indipendentemente da Dio. Non si incontra Dio indipendentemente dal sé. Finchè non abbiamo incontrato noi stessi nella nudità interiore - una nudità più sconvolgente ancora della nudità esteriore - viviamo in un mondo fabbricato da noi stessi, immaginato dalla nostra mente. Noi, il mondo e Dio non siamo che sogni che si sognano, e non la realtà. Chi non si è visto nudo, crederà che tutti siano venuti al mondo con le mutande e con un paio di calzini. Il Dio adorato da uno che non ha incontrato se stesso nudo, è un idolo".

La nudità è un'immagine classica nella storia della spiritualità. Nudo equivale a essenziale, privo di sovrastrutture. Per trovare l'essenza bisogna spogliarsi di tutto ciò che è accidentale, sovrammesso: occorre perciò la plotiniana afairesis, il toglier via, il distacco.
Riflettendo sulla caratteristica principale del samnyasin, ovvero del monaco della tradizione indù, Le Saux nota perciò:

"Anche questo è essenziale al monaco indù. Il non io, non mio per essere genuino deve andare così lontano. Sprofondare in me, nel più profondo di me stesso. Dimenticare il mio io, perdermi nell'io dell'Atman divino che è all'origine del mio essere. E, in questo unico e primordiale Io, sentirmi tutti gli esseri. È da qui che hanno origine non-violenza, compassione, eccetera"».

L'articolo è tratto da "Rivista di Ascetica e Mistica" n. 2/2013, contenente gli Atti del Convegno tenuto a Camaldoli dal 22 al 24 ottobre 2010 a cura di Paolo Trianni, Marco Vannini, dal titolo Nella caverna del cuore. L'itinerario mistico di Henri Le Saux in India. Il pdf della rivista si può richiedere a don Andrea Zerbini, biblioteca del CEDOC di Santa Francesca Romana, all'indirizzo mail andzerbini1953@gmail.com

lunedì 14 giugno 2021

Stare al margine, Gabriella Caramore

"Uomini e profeti" non è solo il titolo di una fortunata trasmissione di cultura religiosa trasmessa da Rai Radio 3. È pure il titolo di una collana editoriale di Morcelliana, uscita nella prima decade degli anni 2000. La dirigeva Gabriella Caramore, che tra il 1993 e il 2018 condusse l'omonimo programma radiofonico.

Leggiamo un breve passo da La fatica della luce, edito da Morcelliana nel 2008. Poche parole che aprono il primo capitolo, Il luogo fecondo.

«Ho sempre avuto una particolare predilezione per l'idea del confine. Forse questo accade a tutte le persone che non si trovano perfettamente a proprio agio nel mondo e nel tempo stesso in cui vivono, e auspicano che, sempre, vi possa essere una via di fuga, un altro luogo in cui andare, un altro tempo in cui vivere. Forse accade anche - di amare il confine - a chi non si trova a proprio agio nemmeno in se stesso, e può sempre sognare che, in un altro luogo e in un altro tempo, la sua vita potrebbe subire una accelerazione di senso. Ma il confine non  è solo la figura di una via di fuga per sognatori malinconici. È anche un luogo di sfida, una modalità di conoscenza del mondo, di incremento d'essere. Ed è questo, credo, che mi attira di più nell'idea del confine: la sua mobilità, le innumeravoli variazioni di cui è suscettibile. Mutevole come un orizzonte scrutato da punti prospettici ogni volta diversi, la figura del confine ci chiede di essere assiduamente indagata. Tanto più oggi, che i suoi tratti sembrano insistentemente sfuggirci, sotto l'onda di una geografia in movimento che ridisegna di continuo le mappe delle nazioni, delle immense periferie urbane che inghiottono i centri, e dei grandi meccanismi simbolici di inclusione e esclusione in costante smottamento.
Molteplici sono i suoi profili. Il confine può delimitare uno spazio del chiuso, della protezione e del riparo: una casa, una città, una appartenenza. Ma poiché dentro la sicurezza può accadere di soffocare, e di eccesso di tutela si può addirittura morire, può nascere, allora, il desiderio di guardare al di fuori, di sognare un lontano, di assaporare sconfinamenti, immaginare alterità. È vero che al di fuori del guscio difeso si possono profilare minacce, pericoli, agguati. Ma anche nuove ricchezze, ebbrezze mai prima conosciute, bellezze mai prima fantasticate. E non è questo - questo miscuglio di attrazione e spavento - che ci assale quando osiamo sporgerci su ciò che non conosciamo? Non è dalla pulsione a protendersi fuori di sé che sono nate tutte le scoperte, da quelle geografiche a quelle del sapere, o anche a quelle dell'amore? Dal protendersi fuori, ma anche dal lasciarsi penetrare: perchè ogni confine, per quanto solido e stabile, ha sempre un varco attraverso il quale passare, o attraverso il quale qualcuno o qualcosa ci può raggiungere».

Il libro è presente negli scaffali della Biblioteca del Seminario, è accessibile al prestito alle modalità di regolamento.

lunedì 24 maggio 2021

Mariano Ballester SJ è salito al Padre


Il 17 maggio u.s. padre Mariano Ballester, direttore spirituale del Collegio Internazionale del Gesù, è tornato alla dimora eterna. Limpida figura di ricercatore spirituale, aveva fondato la scuola di Meditazione Profonda e Autoconoscenza - MPA. Già avevamo estrapolato un breve brano dal suo Per una preghiera continua, lo si può leggere qui.
Lo ricordiamo ora proponendo la celebrazione del rito esequiale, e rimanendo ancora un po' in compagnia delle sue parole:
«Ogni uomo porta Sion dentro di sé, come un richiamo misterioso, come una sponda lontana o un paradiso primordiale, appena visibile. La portano con sè perfino gli atei e gli agnostici, i politici e i commercianti, gli intellettuali e le casalinghe, proprio tutti. La portiamo anche insieme con il nostro caos interno ed esterno, e mentre ci muoviamo frenetici tra i semafori e i rumori di Babilonia, per le nostre città sovraccariche di splendori di plastica e vizi artisticamente presentati, a un tratto sorge in noi il ricordo della nostra Sion, che ci fa sedere e bramare l'altra lontanissima riva».
Verso l'altra riva, ed. Messaggero, Padova 2015

giovedì 20 maggio 2021

Ricordando padre Lafont

 

Lunedì 10 maggio u.s. si è spento Ghislain Lafont, figura spirituale di primissima grandezza, padre benedettino presso l'abbazia di Saint-Marie de la Pierre-qui-vire in Borgogna. Possiamo leggere qui il bel ritratto che gli ha dedicato l'Avvenire, e di seguito una sua riflessione tratta da La Chiesa: il travaglio delle riforme, edito in Italia da San Paolo nel 2012.

Dov'è la Chiesa oggi?
[...] vorrei dire dove credo di vedere delle tracce di ciò che sarà il volto della Chiesa di domani, almeno spero.
Innanzitutto la cura dei poveri che, a partire da Gesù stesso, è il segno della chiesa. Ma occorre precisare. Esiste una tradizione di carità verso i poveri che è coeva alla nascita della Chiesa, e una tradizione più recente, diciamo da san Vincenzo de' Paoli a Madre Teresa, che conduce i cristiani a socccorrere i poveri in tutte le maniere possibili e necessarie - e un simile impegno sarà sempre indispensabile, in particolare per i bambini, gli ammalati e i moribondi. Ma quello che mi sembra un segno della Chiesa di domani è una ricerca e una pratica un po' diverse, che noto forse nella Comunità di Sant'Egidio, nelle fondazioni nate dalla spiritualità di Charles de Foucauld, nelle comunità di base del terzo mondo, nella maniera in cui, in Francia, il Soccorso cattolico vorrebbe affrontare il suo compito: essere in mezzo ai poveri ed aiutarli ad imparare e badare a se stessi, ad organizzarsi, a divenire delle persone e delle comunità umane responsabili. La carità, qui, compenetra la realtà umana. 
[...]
Vedo la Chiesa anche in numerose comunità, vecchie o nuove, nelle quali si vive l'esperienza del Vangelo. L'Italia è ricca a riguardo: alcune hanno superato le frontiere nazionali, come la Comunità di Sant'Egidio o la Comunità monastica di Bose. Altre sono meno note ma non meno vive. Anche in Francia ne abbiamo: il discernimento non è sempre semplice, ma sono felice di veder diffondersi la spiritualità di sant'Ignazio, in particolare nelle giovani coppie. Tutto ciò indica un bisogno di conoscenza e di accompagnamento spirituale, e ci sono dei veri carismi in questa direzione.
La Chiesa è aperta al dialogo. Mi piace quando lo si fa in una certa uguaglianza, come a Basilea o a Graz, e presto a Sibiu, dove le Chiese cercano insieme delle soluzioni evangeliche ed umane alle sfide del nostro tempo: in mancanza di un'unità istituzionale vi è già un'unità pratica. Sono colpito nel vedere come i giovani cristiani siano aperti all'incontro con altre religioni e altri credenti, più spontaneamente degli anziani. Biaogna probabilmente educare un po' tale spontaneità, ma questa c'è ed è una grande benedizione. Papa Giovanni Paolo II ha contribuito non poco a quest'apertura con il famoso incontro di Assisi.
[...]
Tutti questi elementi che ho ricordato sono degli schizzi, dei tratti della Chiesa di domani, poichè caratterizzano quella di oggi. Bisogna riconoscere - ma vedremo immediatamente che è forse una benedizione - che essi sono poveri, fragili, limitati nello spazio, non sempre molto prudenti, spesso contrastati.
Ma non lo è stato anche Gesù?

martedì 18 maggio 2021

Franco Battiato, 23 marzo 1945-18 maggio 2021

«La vita non è qualcosa che ci scivola addosso, ma un mistero stupefacente, che in noi provoca la poesia»

«Quando a una persona manca quella dimensione poetica, diciamo, quando manca la poesia, la sua anima zoppica»

papa Francesco

lunedì 3 maggio 2021

La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno

 

Esce per i tipi di Scaranari editore - Ferrara un delizioso libretto dedicato a La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno. Ne è autrice Daniela Fratti, laurea in Medicina e Chirurgia, Master in Psicopatologia e Scienze forensi, Membro dell'Accademia delle Scienze di Ferrara; scrittrice di cui già abbiamo parlato in questo blog, segnatamente qui e qui.
Come si evince dal titolo, il libro tratta le tradizioni popolari inerenti le guaritrici, figure quasi sempre femminili ben note alla comunità, specie nelle zone rurali dove spesso erano le uniche depositarie della sapienza della cura. Il libro è distribuito da Sognalibro, libreria storica nella Ferrara medievale, luogo carissimo a quanti hanno ancora a cuore il libro stampato.

Leggiamo insieme qualche riga dal volume:
«La Medicina del segno, arte sanitaria antica quanto l'uomo, è diffusamente presente nella tradizione orale del nostro paese. Non esistono documenti scritti di questa disciplina dagli aspetti per molti versi sacerdotali, e l'assenza di testimonianze grafiche è anzi uno dei suoi attributi esclusivi, capace di identificarla con certezza in mezzo a molte altre attività affini: parole e segni che accompagnavano la cura non possono essere trascritti ma vanno mandati tassativamente a memoria. Quasi sempre questa operazione mnemonica si effettua la notte della vigilia di Natale o, in qualche caso, la mattina di Pasqua. Oltre all'obbligo dell'apprendimento mnemonico vi è anche quello di non poter pronunciare ad alta voce le formule che accompagnano il rito, spesso dialettali. Sono rituali che per tradizione non possono essere affidati alla scrittura, pena l'inefficacia della cura: qualcuna mi ha confidato di avere trascritto formule particolarmente complesse su di un foglietto, e di averlo poi nascosto talmente bene da non riuscire più a rintracciarlo, perdendo in tal modo l'opportunità di effettuare alcuni dei riti più difficili. Sebbene si tratti di una delle condizioni chiave per l'applicazione di queste cure, nessuna delle guaritrici da me incontrate ha saputo darmi conto dell'origine di questa proibizione assoluta: tutte concordano nell'affermare che scrivere le parole è come renderle del tutto inefficaci. Questo aspetto rende la Medicina del segno uno degli ultimi patrimoni culturali del nostro paese trasmessi esclusivamente attraverso l'oralità, con l'ulteriore peculiarità che la trasmissione orale di questa conoscenza non è dovuta all'ignoranza della scrittura, come per altri analoghi esempi, ma al rischio di eterno oblio a seguto della pronuncia ad alta voce delle formule oppure della loro trascrizione».

giovedì 29 aprile 2021

Tecniche dell'icona


Leggiamo un breve passaggio da Marko I. RupnikNel fuoco del roveto ardente, ed. Lipa, Roma 1997:
«Nella tradizione cristiana possiamo trovare un significato autentico dello spirituale nell'icona del Volto di Cristo chiamata Nerukotvornyj ("non fatta da mani d'uomo"). Il ritratto di Cristo e, del resto, tutti i ritratti dei santi, nelle icone vengono disegnati su una composizione di quattro cerchi concentrici. In questa struttura dei quattro cerchi, a partire da quello più interno, si cela il significato profondo dello spirituale.
Il primo cerchio si trova sulla fronte, in mezzo agli occhi, e in genere è invisibile. È il cerchio della partecipazione dello Spirito Santo, cioè la capacità data dal creatore all'uomo di aprirsi e di accogliere la partecipazione personale dello Spirito Santo. È il punto vivificante, perchè è l'inabitazione stessa del Signore che dà la vita.
Il secondo cerchio include la fronte e gli occhi: è il cerchio dell'anima, cioè del mondo psichico, dell'intelligenza, del sentimento, della volontà.
Il terzo cerchio abbraccia i capelli, la bocca, la barba e rappresenta il corpo, cioè la dimensione più esposta dell'uomo. I capelli cadono e imbiancano; la bocca è la parte più sensuale perchè indica il bisogno di mangiare per sopravvivere. Esprime dunque il ricordo della vulnerabilità fisica e della mortalità del corpo umano.
Il quarto cerchio rappresenta il cerchio dell'oro più puro di questa icona, del giallo più dorato e luminoso. È ciò che noi comunemente chiamiamo aureola; è la luce dello Spirito santo che, dal cerchio più interno, penetra tutto il mondo psichico e tutto il mondo corporeo e avvolge la persona in una luminosità così percepibile che gli altri possono vederla».

martedì 13 aprile 2021

Il pasto sacro: letture sulla trasformazione del pane in Eucarestia

 

Mario Bacchiega è stato docente di Storia delle religioni alla Pontificia Facoltà Teologica "Marianum". Fra i massimi esperti di storia della religioni, pubblicò agli inizi degli anni '70 un testo sulla universalità della funzione sacra del cibo nelle varie tradizioni religiose. Un testo oggi un po' dimenticato, eppure assolutamente prezioso per la minuziosità teologica con cui viene affrontato l'argomento. Ne leggiamo insieme qualche riga, ricordando che il testo non è accessibile al prestito - e il DPCM in vigore vieta tuttora l'utilizzo della sala studio - ma è possibile richiederne scansioni all'indirizzo mail stefania.biblioteca@gmail.com

"Ci sono dunque coloro che vedono e coloro che non vedono, vi sono quelli che vedono tanto, e quelli che vedono poco. Il sacro si rivela per quel tanto, o per quel poco, che può, da ognuno essere capito; ed è per questo che esso è percepito in modo differente. Il sacro del pasto sarà pertanto indicato in modi diversi; e ciò ha generato discussioni talvolta accese. Ma le discussioni sono frutto delle limitazioni in cui il veggente è ancora irretito. Limitazioni di natura logica, mistica, sensuale, devozionale; o, magari, limitazioni derivanti da condizionamenti educativi, o dall'età psichica. Se io dunque guardando l'oggetto della trasformazione che ho davanti a me dico che il pane è rimasto pane, dirò una cosa vera, come il ferro, divenuto caldo, è sempre ferro. Se dico invece che il pane si è trasformato, dirò egualmente una cosa vera, e non sono in contraddizione. Anzi, attesa questa apparente contraddizione, si può dire che il pasto, divenuto sacro, è allo stesso tempo svelato e nascosto. La profondità cioè così straordinariamente apparsa non contrasta con l'abituale esteriorità. L'immobilità del profondo non contrasta con la mobilità della superficie. Nell'antico Egitto si sapeva illustrare efficacemente queste cose, allorchè si diceva che gli dei hanno la «carne d'oro». Vi era cioè la comprensenza della carne e dell'oro; e si sa che l'oro, in quanto metallo di natura solare, indica nella simbologia religiosa una particolare, sublime forma di consapevolezza che tra l'altro dona l'immortalità. La «carne d'oro», il «pane divino», la «scoperta dell'essenza del pane» è tutta una terminologia equipollente, che nasconde lo stesso mistero".
Mario Bacchiega, Il pasto sacro, ed. Cidema, Padova 1971

mercoledì 31 marzo 2021

Thomas Merton, mistico e poeta

 

Thomas Merton, monaco trappista, scrittore, viaggiatore, poeta; artista, fotografo. Tanto originale la sua esperienza spirituale, tanto vasta la sua produzione letteraria, che qualsiasi notizia ne lascia indietro altre mille. Come invito alla lettura, proponiamo appena poche righe dal suo L'esperienza interiore. Note sulla contemplazione, Cinisello Balsamo, San Paolo 2005.
«L'uomo ai nostri giorni, minacciato di rovina da tutte le parti, è anche assalito con illusorie promesse di felicità. Spesso la minaccia e la promessa provengono dalla stessa fonte politica. Tanto l'inferno quanto il paradiso sono diventati così (essi dicono), possibilità immediate qui sulla terra. È vero che l'inferno e il paradiso emotivi che ognuno di noi porta dentro di sè tendono a diventare sempre più proprietà pubblica e comune. E col passare del tempo pare evidente che ciò che abbiamo da condividere sembra essere non tanto il paradiso quanto piuttosto l'inferno che ci procuriamo a vicenda. Perchè il desiderio che nutriamo, nel segreto della nostra anima, come nostro paradiso, talvolta si trasforma in inferno di tutti quando viene offerto come soluzione ai problemi correnti. Questa è una delle caratteristiche strane della civiltà del ventesimo secolo e uno dei suoi malcontenti.
Nel bel mezzo di questo caos morale ed emotivo, psicologi popolari e maestri religiosi, gente di un ottimismo e di una buona volontà patetici, si sono fatti avanti precipitosamente in modo fiducioso ad annunciare il loro messaggio di comfort. Rararamente preoccupati dell'aldilà, buono o cattivo che sia, da uomini del nostro tempo essi vogliono far funzionare le cose proprio per noi, qui e ora. Essi vogliono che noi, a tutti i costi, siamo illuminati, edificati. Si irritano di fronte alla nostra incresciosa tendenza a vedere il lato buio della vita moderna, perchè sono in grado di immaginare che essa ha un lato luminoso da qualche parte. Dopo tutto, non abbiamo realizzato i progressi più impressionanti? Lo standard di vita non va forse crescendo ogni giorno, e fra poco potremo lavorare sempre meno per potere godere sempre più? Con un po' di autoaiuto psicologico e un minimo decenti di conformismo religioso, ci si può adattare alla vacuità di vite che sono così beatamente prive di lotta, sacrificio o sforzo. Questi consiglieri volonterosi vogliono ravvivare la nostra fiducia in tutte le espressioni di buoni sentimenti borghesi che magicamente tramuteranno il dolore in piacere e il dispiacere in gioia perchè Dio è nel suo cielo e tutto va bene nel mondo.
[...]
Se, quindi, sei impegnato a "diventare un contemplativo" probabilmente perdi il tuo tempo e ti procuri un danno considerevole leggendo questo libro. Ma se in un certo senso sei già un contemplativo (che tu lo sappia o meno, non cambia granchè), forse non solo leggerai il libro con una certa quale consapevolezza che esso fa proprio per te, ma potresti anche renderti conto di doverlo leggere, indipendentemente dal fatto che questo faccia parte dei tuoi progetti o meno. In questo caso non hai che da leggerlo. Non andare in cerca di risultati, perchè essi saranno già stati prodotti molto prima che tu sia in grado di vederli. E prega per me, perchè d'ora in avanti siamo, in qualche strano modo, buoni amici».

lunedì 29 marzo 2021

Omelie per la settimana santa: Giuseppe Angelini

 
(Giotto, Ingresso a Gerusalemme, Cappella degli Scrovegni a Padova)

È iniziata ieri, con la benedizione delle palme, la settimana della Passione di nostro Signore. Sarà una Settimana Santa molto particolare, data l'assenza dei riti collettivi così cari alla pietà cristiana, così preziosi nel loro concorrere a tenere l'attenzione sul grande Mistero che si sta per compiere. Ci aiutiamo dunque con la lettura di qualche riga tratta da un'omelia di mons. Giuseppe Angelini, teologo morale, autore fecondo e docente alla facoltà teologica dell'Italia Settentrionale. L'omelia è dedicata alla domenica delle Palme, ma la sua straordinaria attualità parla a tutti noi.
«L'aspetto più radicale della prova alla quale tutti noi siamo sottoposti e che minaccia di spogliarci di ogni fiducia è la solitudine. La vita è per tutti noi possibile unicamente a questa condizione, che l'attesa e addirittura il credito di altri nei nostri confronti la mostri praticabile. Quando invece si chiude attorno a noi il cerchio della solitudine, si spegne ogni attesa nei confronti del futuro, si spegne dunque la speranza, minaccia di rimanere nell'animo soltanto lo spazio per un inquietante desiderio di silenzio. Per parlare a chi vive questa prova della solitudine e del silenzio Gesù stesso dovette personalmente viverla. Nel racconto di Marco appare particolarmente evidente il tratto della progressiva solitudine alla quale Gesù è condannato; tutto pare cospirare a scavare un profondo intervallo di silenzio tra il Crocifisso e la moltitudine che sta intorno.
Vogliono Gesù solo innanzitutto i sommi sacerdoti e gli scribi, i quali cercavano il modo di impadronirsi di Gesù con inganno, per ucciderlo. Avevano bisogno di un inganno, perchè farlo allor scoperto, e addirittura durante la festa di Pasqua, li avrebbe esposti al rischio di un tumulto di popolo.
Il popolo non ci deve essere, non deve in alcun modo sapere.
Ma non è in ogni caso fatale che così accada, a prescindere dai propositi di sacerdoti e scribi? No, non è ineluttabile; pochi giorni prima, quando Gesù era entrato in Gerusalemme, si era radunata una folla. Quanto numerosa? Non sappiamo, ma in ogni caso una folla sufficiente per far temere tumulti. Il processo di Gesù e la sua conseguente passione hanno bisogno di censura».
da Andiamocene altrove - Omelie dell'anno B, Milano, Glossa 2008

Chi fosse interessato a conoscere l'intera omelia, può fare richiesta del pdf scrivendo a: stefania.biblioteca@gmail.com

giovedì 25 marzo 2021

Il Seminario celebra la sua festa!

 

Oggi, 25 marzo, il Seminario celebra la sua titolazione: è infatti dedicato all'evento salvifico dell'Annunciazione. Ripercorriamone cursoriamente un po' di storia. 
La sua prima sede fu quella santa Giustina, in fondo all’odierna via Garibaldi, la cui chiesa, antichissima, era stata eretta dai monaci benedettini cassinesi alle dirette dipendenze del cenobio benedettino di santa Giustina a Padova.
Al momento della destinazione a Seminario, l’edificio conservava ancora traccia di un ospedale per infermi, che era stata la prima sede nella quale Barbara d’Austria aveva radunato le ragazze rimaste orfane o disperse dalla famiglia in seguito al terremoto del 1570, per le quali poi la stessa duchessa fonderà il conservatorio di santa Barbara nella zona di corso Giovecca.
Nel 1584, in ottemperanza alle costituzioni del Concilio di Trento (1545-1563) il vescovo Paolo Leoni ottiene da papa Gregorio XIII l’autorizzazione ad istituire il Seminario.
Il successore del vescovo Leoni, cioè Giovanni Fontana, il vescovo che più di tutti incarnava le istanze di san Carlo Borromeo, diede un grande impulso allo sviluppo dell’istituzione ampliando gli edifici e acquistando l’orto in una zona contigua.
Il vescovo Fontana è peraltro responsabile dell’istituzione di un organismo collaterale a quello seminariale, cioè il collegio dei “chierici turchini”. Essi costituivano la “riserva” dei candidati, ed affiancavano i seminaristi nel servizio liturgico della Cattedrale.
Il 22 luglio 1584, domenica IX dopo la Pentecoste, 14 putti rivestiti di tonaca rossa prendono possesso della loro casa di formazione. Per chi ne ha curiosità, il bel libro di mons. Tiberio Bergamini ne riporta i nomi uno per uno. 
Il primo sacerdote ad uscire dal seminario locale è don Pietro Anti, ordinato il 23 settembre dello stesso 1584. Dalla seconda visita pastorale di Giovanni Fontana apprendiamo che don Pietro Anti nel 1597 era parroco ad Albarea, parrocchia che solo l’anno precedente era stata separata da Ducentola. Questo paese che dista circa 18 km da Ferrara è importante perché vi si tenne nel medesimo 1584 la prima giornata pro Seminario, che per la cronaca rese «due sacchi di formento per l’amor di Dio».
Nel 1721 il cardinal Ruffo decise di trasferire la sede del seminario nell’antico palazzo Costabili-Trotti a motivo della sua vicinanza con la cattedrale, dove i seminaristi dovevano attendere alle celebrazioni liturgiche. 
Il card. Marcello Crescenzi nel 1755 lo amplia con l’unione di un altro palazzo attiguo e di alcune case, che si trovavano verso la strada di Gorgadello, odierna via Adelardi.
Nel 1953 viene dotato di nuove aule scolastiche da mons. Ruggero Bovelli, che nel medesimo anno cura pure altri lavori di rinnovamento.
È l’arcivescovo Natale Mosconi che progetta e realizza, nel 1955-56, l’imponente edificio che ci ospita. La scelta del luogo, all’immediata periferia della città, risponde a nuove esigenze pedagogiche e numeriche. La sede viene trasferita nel 1956 e già durante l’episcopato dello stesso mons. Mosconi vengono realizzati notevoli ampliamenti nel 1961 e nel 1976.
Il seminario abita dunque questa sede da 65 anni. 
Ad maiora!

lunedì 22 marzo 2021

Salvatore Natoli sul dolore, in "Le parole ultime. Dialoghi sui problemi del «fine vita»"


All'inizio del millennio la discussione su cure palliative, etica della medicina, questione e condizioni del fine vita si fa pressante. Sono tante le pubblicazioni sul tema, e questa che presentiamo, oltre all'indiscussa qualità delle firme, ha il pregio di presentare il tema sotto forma di "vocabolario": le voci attinenti sono presentate in ordine alfabetico, e il tema viene sviluppato da uno o più autori. Abbiamo scelto alcune righe di Salvatore Natoli sul dolore.
«Viviamo in una società in cui il dolore è nascosto, non appare, o quando appare, appare male, con i tratti dell'osceno. Peraltro, nel parlare del dolore, è difficile trovare il tono giusto, perchè i sentimenti estremi, i momenti intensivi della vita si collocano sempre al di sotto o al di sopra del linguaggio. Neutralizzano le parole. Perchè si pongono al di sotto o al di sopra del linguaggio? Perchè dinanzi alla sofferenza - specie quella estrema, quella in cui ne va della vita - non c'è che dire e sia chi soffre, sia chi ne è partecipe non trova le parole. Le parole sono stonate. Per chi è nel crogiuolo della sofferenza è difficile tentare perfino una consolazione. Può persino irritare, può essere sentita come una prevaricazione, quasi a dire: "Ma tu cosa ne sai di quello che io sto patendo?". Di qui la vanità delle parole, che si spengono e insieme si moltiplicano in modo insensato. Chi è preso da un dolore estremo dice parole che esprimono l'insensatezza della propria esperienza. Però, se per un verso le parole risultano vane, per altro verso chi soffre sente il bisogno di una parola che salvi, coltiva un sentimento di attesa, dice nel gesto ciò che non riesce a esprimere con le labbra. È una muta richiesta di aiuto. Nella lacerazione si cerca la reazione giusta, la parola che, se non salva, almeno accompagni. In quel muto silenzio del sofferente v'è una tensione verso una parola che possa essere presa sul serio. Di dolore si può morire, ma se non si muore la vita può germinare dentro lo stesso dolore.
La sofferenza è in primo luogo esperienza di una perdita: è diminutio, danno. Danno e perdita che possono essere di vario tipo e natura: può trattarsi di una patologia pesante, può essere un disturbo di relazione con gli altri, con il mondo. Quando gli uomini soffrono, di qualunque cosa soffrano, si sentono impediti, mutilati, distrutti. Chi accusa un dolore è impedito nel movimento, nel gesto, il corpo è piegato. L'intensità del dolore espropria l'uomo dalla mente, lo oscura: più il dolore è acuto, meno si è consapevoli di se stessi. Il dolore estremo fa perdere la ragione.»

Le parole ultime. Dialoghi sui problemi del fine vita, Bari, Dedalo 2011

lunedì 15 marzo 2021

Padre Mariano Ballester, "La meditazione come offerta"


L'insegnamento di padre Mariano Ballester, gesuita, si colloca idealmente nel solco di quanti cercano di integrare la sapienza spirituale della tradizione orientale con la fede cristiana. Questa linea ideale comprende Giovanni Vannucci, del quale ricordiamo gli studi sull'esicasmo e sulla filocalia, Raimon Panikkar, Henri le Saux, Bede Griffiths o.s.b., tra molti altri.
Leggiamo oggi qualche riga di padre Ballester sulla meditazione:

«L'atteggiamento di continua offerta ha il suo momento forte nella meditazione, che deve porsi all'inizio della giornata. La meditazione è il momento in cui la persona fa crescere in sé e perfezione l'atteggiamento orante continuato. Nella meditazione quotidiana le energie spirituali si unificano e si aprono alla immensa realtà di Dio, si trasformano e si abituano ad essere come un alveo sempre aperto verso l'alto, invece che essere energie disperse o, peggio ancora, dirette verso di sé. Allo stesso tempo nella meditazione si impara a ricevere dall'alto le grazie necessarie per una apertura maggiore ed una più costante disponibilità al piano divino della salvezza universale. 
Meditare con questo spirito non è certo accontentarsi di cose generiche o astratte. La volontà di auto-offerta dev'essere molto concreta: si tratta di cominciare e di concludere l'esperienza meditativa con un fermo proposito che nulla si farà durante il giorno senza offrirlo a Dio e al suo piano universale. Bisogna consacrare il giorno intero, in tutti i suoi particolari, ed enumerare questi particolari, se necessario, alla luce della perenne apertura e dedizione a Dio».
Mariano Ballester, Per una preghiera continua, ed. Paoline, Roma 1983 

lunedì 8 marzo 2021

Ricordando madre Cànopi

 


Ricorre in questi giorni il secondo anniversario della morte di madre Anna Maria Canopi, benedettina, prima badessa dell'abbazia Mater Ecclesiae, da lei fondata sull'isola di San Giulio d'Orta. Mentre ne celebriamo il ricordo, rileggiamo poche brevi parole da un suo prezioso libretto, Voi mi conoscete, Lectio divina sulla vita consacrata, uscito a Roma nel 1981 per la casa editrice delle Paoline.

«L'itinerario della conoscenza di Cristo coincide con lo stesso itinerario della fede e dell'amore. L'io deve imparare a tacere e ad ascoltare; la mente deve imparare a lasciar cadere le impalcature dei suoi concetti e dei suoi ragionamenti; il cuore deve imparare la strada dell'esilio per andare lontano da tutto quanto lo tiene attaccato ai suoi vecchi e tristi amori.
Per conoscere il Cristo, e quindi conoscere il Padre, nella luce dello Spirito Santo, bisogna prima di tutto liberarsi dalle proprie categorie mentali, purificare la mente e il cuore da tutti quei modi di vedere e di sentire che sono una proiezione del nostro io o comunque un'ambigua rappresentazione del Dio trascendente. È necessario passare attraverso una esperienza di spoliazione che ci porta a toccare il fondo della nostra ignoranza e a scoprire l'infinita distanza esistente tra la nostra intelligenza e la Sapienza divina, tra i nostri pensieri e i pensierio di Dio. Questa è l'ora in cui ci si imbatte - come Mosè (cfr Es 3,2-6) - nel roveto ardente; l'ora in cui ci si rende conto di non poter avanzare, così vestiti e calzati come si è, nella terra santa che ci sta davanti, e si sente perciò l'esigenza di lasciar cadere, fino all'ultimo lembo, tutto il rivestimento fittizio che ci fa da schermo, per presentarci totalmente indifesi al fuoco divorante della Verità. Può essere anche l'ora in cui - come Abramo (Gn 15,12) ci si sente colti all'improvviso da un mai sperimentato "torpore", da un "oscuro terrore", che è il fremito della nostra fragile natura toccata dal divino, caduta nelle mani del Dio vivente. Nella misura in cui ci si sente chiamati e totalmente visti, conosciuti da colui che è Presente, si ha la percezione del proprio nulla. Ma a poco a poco si va scoprendo in lui il senso e il valore unico della propria esistenza in mezzo alla sterminata moltitudine delle altre creature. E si intuisce, nell'intimo, il peso di quel nome, l'importanza di quell'unico e irrepetibile incontro che pone un sigillo su di noi, un sigillo che è come una ferita profonda; un dolore e una gioia senza nome, che hanno il sapoere indefinibile e insieme inconfondibile dell'esperienza del mistero divino».

martedì 2 marzo 2021

Universalità del messaggio di Raimon Panikkar


La speculazione filosofica e teologica di Raimon Panikkar si colloca alla confluenza tra esperienza cristiana e indù. La sua peculiare formazione ecumenica ne fa un protagonista di primo piano del dialogo interreligioso. Per illustrare l'universalità della sua vocazione, la biografia riportata nel sito ufficiale usa queste parole:
«Nell'Induismo e nel Buddhismo egli aveva trovato altri linguaggi, oltre l'ebraico biblico, la filosofia greca e il cristianesimo latino, per esprimere le convinzioni di fondo (il kerigma) della tradizione cristiana».

Dalla sua sterminata produzione libraria, leggiamo poche parole contenute in Vita e parola, Milano, Jaca 2010; segnatamente, al paragrafo L'esperienza vedica. Mantramanjari:
«Una delle più stupende manifestazioni dello Spirito è indubbiamente quella che ci è pervenuta sotto il nome generico di Veda. L'Epifania vedica appartiene all'eredità dell'uomo, e come avviene nel caso della maggior parte dei valori religiosi e culturali dell'umanità, si è più fedeli alla sua vocazione più profonda se la si condivide fraternamente con l'intera umanità, piuttosto che limitarsi a preservarla scrupolosamente come se si dovesse custodire un tesoro tenuto sotto chiave e quasi nascosto. Tale condivisione non deve però trasformarsi né in una profanazione, con il pretesto di recare profitto agli altri, ma  dovrebbe essere una comunicazione vivente, o addirittura una comunione, libera però da qualsiasi ombra di propaganda o proselitismo. Queste pagine non intendono trasmettere dunque semplici informazioni, ma un messaggio che potrebbe indurre a una trasformazione interiore. 
Questa antologia mira a presentare i Veda come un'esperienza umana tuttora valida e in grado di arricchire e stimolare l'uomo moderno nel suo tentativo di adempiere il proprio compito in un'era in cui, nel bene come nel male, la sua sorte è indissolubilmente legata a quella dei propri simili ed egli non può più permettersi di vivere nell'isolamento».

venerdì 26 febbraio 2021

Altissima povertà: un testo di G. Agamben sulle regole monastiche

Chi ha amato le dissertazioni teologiche che così densamente animano il "Nome della rosa", certamente troverà utili approfondimenti nel testo che Giorgio Agamben ha dedicato alla relazione tra vita e regola nel monachesimo occidentale: Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Vicenza, Neri Pozza 2012, particolarmente al capitolo 3, "Altissima povertà e uso", laddove si fa riferimento ai testi di Bonaventura, Ubertino da Casale, Michele da Cesena. Ovviamente non è argomento da cui estrapolare poche righe, come facciamo di solito, ma per invogliare il lettore alla consultazione proponiamo comunque un breve estratto dal primo capitolo, "Nascita della regola", in particolare riferimento alla scansione delle ore:

«Horologium è il nome che, nella tradizione orientale, designa significativamente il libro che contiene l'ordine degli uffici canonici secondo le ore del giorno e della notte. Nella sua forma originaria, esso risale all'ascesi monastica palestinese e siriaca fra il VII e l'VIII secolo. Gli uffici della preghiera e della salmodia vi sono ordinati come un "Orologio" che segna il ritmo della preghiera dell'alba (orthros), del mattino (prima, terza, sesta e nona), del vespro (lychnikon) e della mezzanotte (che, in certe occasioni, durava tutta la notte: pannychis). Questa attenzione a scandire la vita secondo le ore, a costituire l'esistenza del monaco come un horologium vitae, è tanto più sorprendente, se si considera non soltanto la primitività degli strumenti di cui essi disponevano, ma anche il carattere approssimativo e variabile della stessa divisione delle ore. Il giorno e la notte erano divisi in dodici parti dal tramonto del sole all'alba. Le ore non avevano pertanto, come oggi, una durata fissa di sessanta minuti, ma, tranne agli equinozi, variavano secondo le stagioni, e quelle diurne erano più lunghe in estate (nel sostizio raggiungevano gli ottanta minuti) e più corte in inverno. La giornata di preghiera e di lavoro era dunque, in estate, il doppio di quella invernale. Inoltre gli orologi solari, che sono in quest'epoca la regola, funzionano solo durante il giorno e con cielo sereno, per il resto del tempo il quadrante è "cieco". Tanto più il monaco dovrà atteneresi indefettibilmente all'esecuzione del suo officio: "Quando il tempo è nuvoloso", si legge nella Regola del maestro "e il sole nasconde al mondo i suoi raggi, tanto nel monastero che in viaggio o nei campi, i fratelli stimeranno il trascorrere del tempo calcolando mentalmente le ore (perpensatione horarum) e quale sia l'ora, compiranno il loro ufficio consueto e anche se sia in ritardo o in anticipo di un'ora l'opera di Dio (opus Dei) non sarà trascurata, dal momento che, per l'assenza del sole, l'orologio è cieco".

mercoledì 24 febbraio 2021

Verso l'ignoto. Donne moderniste di primo Novecento. Presentazione on-line

 

Si terrà domani 25 febbraio alle 18 la diretta fb sulla pagina del Coordinamento Teologhe Italiane, e sulla piattaforma Zoom fino a capienza, la presentazione del volume "Verso l'ignoto. Donne moderniste di primo Novecento", curato da Roberta Fossati, socia fondatrice della S.I.S., Società Italiana delle Storiche.

Mariangela Maraviglia sulla sua pagina in Academia lo presenta così:
«Gli anni che collegano e differenziano i secoli XIX e XX sono ricchi di fermenti ideali, ecclesiali e politici. Il fenomeno modernista incrocia tutto questo e svela al complessità delle sue istanze di riforma ecclesiale e riformulazione teologica, di trasformazione civile e articolazione pedagogica. Le donne vi sono coinvolte a molti livelli: nella relazione di amicizia testimoniate negli epistolari, nelle iniziative educative e solidali, nella letteratura impegnata, nel sogno di un diverso rapporto fra i sessi, nell'ideale di autenticità religiosa al di là delle barriere confessionali. In una ricca trama biografica, letteraria e geografica si incrociano nomi noti o poco conosciuti come quelli di Dora Melegari, Adelaide Coari, Antonietta Giacomelli, sorella Maria di Campello, Teresa Pioli, Maria Montessori. Altre novellatrici e intellettuali, giornaliste e poetesse, educatrici e scrittrici per l'infanzia formano una galassia che resta in parte sommersa. In questo studio riescono non solo a emergere, ma anche a mostrare le connessioni che ne fanno una sorta di comunità solidale. Un racconto avvincente pieno di volti e di memorie e ricco di sogni, che è al tempo stesso un valido strumento di ricerca e di ricognizione bibliografica».


Verso l'ignoto. Donne moderniste di primo Novecento, Firenze, Nerbini 2021

lunedì 22 febbraio 2021

Con padre Vannucci "Nel cuore dell'essere"

 


Padre Giovanni Vannucci, servita, è una delle figure che più incarnano lo spirito del Concilio Vaticano II, nonostante difficoltà e fraintendimenti che ne hanno affaticato la ricezione. Presenza luminosa nella spiritualità del Novecento, ne troviamo testimonianza nelle numerose raccolte di prediche, riflessioni, consigli spirituali.
Leggiamo poche righe da una sua omelia del 16 maggio 1976, significativamente titolata Diffondere, come la pianta, bellezza, pace, libertà, silenzio.

«Non possiamo pretendere che la linfa di Cristo percorra la coscienza umana se noi che crediamo non ci trasformiamo nella realtà di Cristo. Siamo i nuovi sali che Cristo ha introdotto nella coscienza degli uomini, i nuovi glucosi. Come la linfa che Cristo porta alla coscienza dell'uomo e il nutrimento che la linfa porta alla pianta; come la linfa che Cristo comunica alla nostra coscienza e che noi dobbiamo far vivere. Allora che cosa dobbiamo fare per essere cristiani: dobbiamo stare a terra? No. Dobbiamo stare in alto? No. Tendere con impegno totale e risoluto alla conquista dello spirito? No.
Dobbiamo riordinare la nostra vita e cominciare, come la pianta, a diffondere bellezza, pace, libertà, silenzio.
E che bisogno c'è di silenzio! Nei giorni scorsi ho avuto ospiti alcuni frati, impegnati nella ricerca spirituale. Sono, mi sono accorto, nevrotici e discorsivi. In noi c'è il cervello, uno strumento molto importante; ma al di là del cervello, al di là delle cose che pensiamo, c'è il silenzio, la nostra mente, che dev'essere creatrice. Ed è creatrice quando coglie l'essenza delle cose, il mistero delle cose. E quando lo coglie non fa lunghi discorsi concatenati, ma tace. E l'uomo mette a posto un sasso, mette a posto una pianta, mette a posto un mobile mal collocato, pulisce una stanza, adorna di bellezza l'ambiente e la città in cui vive; quando parla, il suo parlare è carico della potenza che viene dal silenzio interiore, dall'equilibrio interiore che ha raggiunto».

G. Vannucci, Nel cuore dell'essere. Prediche alle Stinche, Milano, Mondadori 1998, p. 71.

martedì 16 febbraio 2021

Ermes Ronchi sulla preghiera

 


Ermes Ronchi è conosciuto ai più per il suo avvicendamento a Raniero Cantalamessa nella conduzione della rubrica Le ragioni della speranza, appuntamento del sabato all'interno del programma RAI A sua immagine che completa il suo palinsesto la domenica mattina.
È altresì figura interessantissima della riflessione spirituale contemporanea che si pone alla confluenza delle sensibilità di padre Vannucci e di David Maria Turoldo.
Leggiamo insieme qualche riga da Dieci cammelli inginocchiati, Milano, Paoline 2011; segnatamente, a p. 107:

«Quando vuoi pregare, entra nel segreto» (Mt 6,6)
"Entra nella camera più nascosta. Secondo tutta la tradizione dei Padri del deserto, la camera più nascosta è il proprio corpo. «La cella del monaco sono i limiti stessi del suo corpo. Là c'è la sede della sapienza» (Giovanni Climaco).
In questo loghion di Gesù, oltre all'interpretazione immediata, quella di non apparire ma di essere, entra in gioco la vita interiore che si collega al deserto e al silenzio.
«Poco a poco, al di là delle forme secondarie, la preghiera deve farsi attesa di Dio. Vuoto attento, raccolto, amante. Niente di esteriore corrisponde ormai a una tensione interiore» (Simone Weil).
Povertà. Il Nada di Giovanni della Croce e Teresa d'Avila.
La nostra preghiera deve essere attesa di Dio, fino a che egli venga e penetri in essa, attraverso tutte le sue soglie, le sue vie, i suoi sensi.
Giovanni Cassiano spiega come pregare in segreto: «Ecco come compiere il precetto della camera segreta. Noi preghiamo nella nostra camera quando ritiriamo il cuore dal tumulto dei pensieri e delle preoccupazioni, e in una specie di colloquio segreto e di dolce amicizia, noi sveliamo al Signore i nostri desideri. Preghiamo con la porta chiusa quando invochiamo, senza aprire le labbra, colui che non tiene conto delle parole, ma guarda al cuore» (Conferenze, IX, 35)".

venerdì 12 febbraio 2021

Annick de Souzenelle e Il simbolismo del corpo umano


Annick de Souzenelle è una studiosa di spiritualità che fa particolare riferimento all'interpretazione letterale ebraica delle Scritture. Prima che scrittrice, è stata infermiera e psicoterapeuta. Da questo approccio nasce Il simbolismo del corpo umano, rilettura dello schema corporeo alla luce delle analogie con l'albero della vita e le lettere ebraiche. Testo di non immediata comprensione, ad una lettura più profonda offre tuttavia uno sguardo inusuale sul simbolismo recondito contenuto nelle scritture sacre. Il legame con le lettere dell'alfabeto ebraico è ovviamente strettissimo, e questo va tenuto presente quando ci si voglia addentrare nella lettura, ma le spiegazioni dei nessi numerologici e figurativi abbondano, e questo ne facilita l'assimilazione.
Riprendiamo qui un passo tra i più abbordabili, per il riferimento all'episodio della lavanda dei piedi contenuto nel vangelo di Giovanni che tutti conosciamo.
Leggiamo da pagina 107:
«È classico vedere nel gesto di Cristo che lava i piedi degli apostoli il simbolo per eccellenza dell'umiltà di colui che, sebbene maestro, si fa servo.
Certo. Ma c'è molto di più.
Prima di tutto, rimettiamo questa scena nel suo contesto: il Cristo compie questo gesto prima di mettersi a tavola per celebrare la pasqua, cuore stesso del mistero. Nelle nostre società funzionali, che non hanno più alcun senso del simbolo, sono le mani ad essere lavate prima del pasto. Quando Pilato si lava le mani, vuole dire che non vuole conoscere. Le mani, l'ho detto e lo studieremo più avanti, sono simbolo della conoscenza. "Non voglio saperne, non voglio immischiarmi, non ho competenza alcuna a suo riguardo", vuol dire Pilato declinando qualsiasi responsabilità. Ma prima di partecipare al pasto mistico che li introduce in anticipo al banchetto delle nozze divino-umane, gli apostoli devono essere ricondotti alle loro norme ontologiche. Cristo allora si piega davanti ad essi e lava loro i piedi, così guarisce la piaga dell'umanità, di cui i piedi sono simbolicamente portatori, in quanto potenzializzano l'essere interamente malato».

Il simbolismo del corpo umano, Sotto il Monte (BG), Servitium,  2000.

In Umbria, un G7 sui temi dell'inclusione e disabilità

  E' in pieno svolgimento in Umbria l'incontro del G7 sul tema " Disabilità e inclusione ". Per l'Italia parlerà Aless...