lunedì 22 marzo 2021

Salvatore Natoli sul dolore, in "Le parole ultime. Dialoghi sui problemi del «fine vita»"


All'inizio del millennio la discussione su cure palliative, etica della medicina, questione e condizioni del fine vita si fa pressante. Sono tante le pubblicazioni sul tema, e questa che presentiamo, oltre all'indiscussa qualità delle firme, ha il pregio di presentare il tema sotto forma di "vocabolario": le voci attinenti sono presentate in ordine alfabetico, e il tema viene sviluppato da uno o più autori. Abbiamo scelto alcune righe di Salvatore Natoli sul dolore.
«Viviamo in una società in cui il dolore è nascosto, non appare, o quando appare, appare male, con i tratti dell'osceno. Peraltro, nel parlare del dolore, è difficile trovare il tono giusto, perchè i sentimenti estremi, i momenti intensivi della vita si collocano sempre al di sotto o al di sopra del linguaggio. Neutralizzano le parole. Perchè si pongono al di sotto o al di sopra del linguaggio? Perchè dinanzi alla sofferenza - specie quella estrema, quella in cui ne va della vita - non c'è che dire e sia chi soffre, sia chi ne è partecipe non trova le parole. Le parole sono stonate. Per chi è nel crogiuolo della sofferenza è difficile tentare perfino una consolazione. Può persino irritare, può essere sentita come una prevaricazione, quasi a dire: "Ma tu cosa ne sai di quello che io sto patendo?". Di qui la vanità delle parole, che si spengono e insieme si moltiplicano in modo insensato. Chi è preso da un dolore estremo dice parole che esprimono l'insensatezza della propria esperienza. Però, se per un verso le parole risultano vane, per altro verso chi soffre sente il bisogno di una parola che salvi, coltiva un sentimento di attesa, dice nel gesto ciò che non riesce a esprimere con le labbra. È una muta richiesta di aiuto. Nella lacerazione si cerca la reazione giusta, la parola che, se non salva, almeno accompagni. In quel muto silenzio del sofferente v'è una tensione verso una parola che possa essere presa sul serio. Di dolore si può morire, ma se non si muore la vita può germinare dentro lo stesso dolore.
La sofferenza è in primo luogo esperienza di una perdita: è diminutio, danno. Danno e perdita che possono essere di vario tipo e natura: può trattarsi di una patologia pesante, può essere un disturbo di relazione con gli altri, con il mondo. Quando gli uomini soffrono, di qualunque cosa soffrano, si sentono impediti, mutilati, distrutti. Chi accusa un dolore è impedito nel movimento, nel gesto, il corpo è piegato. L'intensità del dolore espropria l'uomo dalla mente, lo oscura: più il dolore è acuto, meno si è consapevoli di se stessi. Il dolore estremo fa perdere la ragione.»

Le parole ultime. Dialoghi sui problemi del fine vita, Bari, Dedalo 2011

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